Monument Valley viene spesso definita come l’ottava meraviglia del mondo e se non lo è davvero ci si avvicina certamente.
Con le sue guglie di roccia che cercano di arrampicarsi verso il cielo, i massicci parallelepipedi dimenticati dall’erosione e i pinnacoli di arenaria rosata, emana una bellezza che induce riverenza e rispetto. Non a caso la regione, nel cuore della riserva Navajo, è conosciuta in tutto il mondo, immortalata in fotografie che cercano di riprodurre il più fedelmente possibile gli spettacolari effetti delle albe e dei tramonti che paiono godere, in quest’area quadrangolare di 65 chilometri per 80, di speciali privilegi cromatici.
Ci vuole un notevole sforzo di immaginazione per comprendere che, una volta, molti e molti millenni fa, tutta l’odierna Monument Valley costituiva un solido altopiano alto quanto i resti, davvero “monumentali”, che possiamo ammirare. E desta qualche apprensione pensare che la disgregazione della roccia che ha operato lo scenario che si svela dinanzi agli occhi continua a lavorare, con tranquilla e laboriosa tenacia, anche nel momento in cui alziamo lo sguardo per osservare una formazione particolarmente interessante… Ma per fortuna, questa volta, i tempi dell’erosione si consumano su altri quadranti, ben diversi da quelli delle nostre patetiche clessidre.
L’intera area è immersa nello scenario di una nudità assoluta ed elementare dove risaltano ancora di più le sculture di roccia modellate dalla natura nel corso dei milleni. Oggi solo pochi pastori navajo riescono a trovare di che sostentarsi con un lavoro faticoso e comunque non molto redditizio. Una volta però in questa vallata vivevano centinaia di Anasazi che erano riusciti a risolvere, in qualche modo, il difficile problema della cronica scarsezza d’acqua. Abilissimi artigiani, gli Anasazi erano stati in grado di allestire piccole dighe per trattenere e convogliare gli improvvisi torrenti di acqua che si incanalavano nella loro terra, inondandola per brevi periodi, dopo le piogge. Gli Anasazi della Monument Valley furono così in grado di coltivare piccoli appezzamenti di terreno lungo le rive dei canali che avevano costruito per irrigare i loro campi di granturco, fagioli e zucche.
La dura vita di questi primi abitanti dell’Arizona e la loro magra dieta non erano fatte per attirare la cupidigia di tribù ostili e rapaci senza contare, poi, il fatto che la mancanza di acqua scoraggiava sul nascere ogni idea di avventurarsi in quelle contrade tanto repulsive all’insediamento dell’uomo. In questo modo i pacifici Anasazi poterono continuare a rimanere tranquilli e indisturbati per centinaia di anni, con il privilegio conquistato a così caro prezzo di potersi godere da soli lo splendido scenario naturale nel quale avevano scelto di vivere in pace e con piena libertà.
A ricordo del loro passaggio in queste contrade si possono scoprire centinaia di piccoli insediamenti a loro attribuibili, la maggior parte dei quali sono conservati senza alcun tipo di segnalazione o di nome. Le comunità Anasazi, di solito, erano piccole e molto raccolte, collocate in canyon isolati e alloggiate in maniera molto defilata e tutt’altro che invadente all’interno di caverne naturali sulle pareti delle gole. Come sappiamo, gli Anasazi abbandonarono l’Arizona nordorientale nell’ultima parte del XIII secolo.
Al loro posto subentrarono i Navajo che ancora oggi abitano il territorio, occupandosi dell’allevamento delle pecore, della tessitura dei tappeti e della produzione di gioielli. Gli indiani hanno sempre vissuto in armonia con l’ambiente naturale, adattando il loro comportamento e le loro credenze alle limitate risorse idriche della valle.
Un Navajo non costruirà mai la propria casa, il tradizionale ho-gan ingegnosamente costruito con fango secco e legno, vicino a una sorgente d’acqua. Perché ogni creatura su questa terra è nata dall’unico e stesso Dio e deve avere uguali possibilità di accesso all’acqua da cui dipende la sua sopravvivenza. Una concezione cosmologica e tradizionale che ritroviamo perfettamente delineata anche nella dottrina francescana e non è difficile immaginare il poverello di Assisi” felicemente immerso nella nuda e assoluta bellezza della Monument Valley benedire “fratello canyon” e “sorella luna”, presente come non mai nell’aria tersa e cristallina di questa vallata dimenticata dagli uomini, modellata dal sole e dal vento, voluta da Dio.
Ai tempi odierni, però, molte delle ragioni che la ponevano all’estremo limite delle terre abitate, difesa e custodita dalla sua stessa asperità, non hanno più lo stesso peso. Molte ombre hanno coperto con la loro forma fragile e derisoria, per un momento, la sabbia e la terra della Monument Valley. Tutti sono poi spariti nello spazio di un batter di ciglia, anni e secoli non contano nulla nel ritmo delle epoche geologiche, le uniche che possono scandire il tempo di queste regioni, delle loro età abissali.
Dagli indiani Anasazi ai fuorilegge del Far West che cercavano nella durezza della natura quella pace che né la loro anima né gli sceriffi della legge degli uomini erano disposti a concedere, al celebre Kit Carson, feroce e spietato persecutore di Navajo, ai prospettori geologici in cerca di uranio e argento, moderni predatori di un’arca terrestre sempre più violata, tutti sono passati, colpevoli e innocenti, giusti ed empi, giudici e assassini, indiani e cowboy. Tutti hanno lasciato un’impronta, l’orma su una sabbia presto spazzata dalle onde del tempo. Quello del cielo e della terra, non quello degli uomini. Ed è bene non dimenticare tutto questo, passando come visitatori fugaci della Monument Valley, ospiti dei Dinhe, il popolo Navajo, e della loro valle incantata.